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Un mondo al tramonto. Una lettura iconologica del segreto dei pastori d’Arcadia

Articolo di Mario Arturo Iannaccone (2005)

Il significato interno del dipinto i Pastori d’Arcadia è celato in un particolare. I biografi del pittore non hanno dubbi sul fatto che l’ispiratore e il committente del quadro sia stato il cardinale Giulio Rospigliosi (1600-1669), mecenate romano, regnante dal 1667 al 1668 come papa Clemente IX. Rospigliosi chiese al pittore un soggetto che ricordasse che "la felicità e la vita sono soggette alla morte". In panni classici, ovviamente, come richiedeva la perdurante voga di quegli anni.

L’Arcadia felix è uno dei più praticati temi poetici a partire da Teocrito e Virgilio. E anche uno dei più longevi perché passò pressoché intatto dal periodo pagano a quello cristiano, quando fu impiegato come allegoria morale. Ripreso dagli Umanisti, sino al Settecento maturo rimase negli inventari dei poeti. L’Arcadia è un simbolo della terra felice e dell’Età dell’Oro, governata da re saggi, solcata da ruscelli puliti, punteggiata d’alberi che danno frutti spontanei. È la terra in cui tutti vorrebbero vivere, il paradiso ritrovato, fuori dalla corrente della storia; la terra dove, secondo una secolare codificazione poetica, si vive felici e si pensa unicamente ai piaceri, all’amore e all’amicizia. Ideale dell’otium romano, della saggezza secondo Ovidio.

Virgilio, il grande poeta augusteo, era stato assurto a livello di profeta, per due suoi componimenti contenuti nelle Eclogae: la IV (paulo maiora canamus), uno dei cardini della poesia occidentale, dove profetizzava la renovatio del mondo e la nascita prossima di un fanciullo divino (il figlio di Pollione probabilmente, poi identificato nei commenti tardo-antichi come Gesù Cristo); e la V dove paragonava il monumento di pietra destinato a durare, alla vita breve di Dafni "simile a quella di un cigno". Proprio questo componimento è la radice letteraria del soggetto di Poussin. Non l’unica e infatti sicuramente Poussin conosceva anche la riproposizione che ne fece Jacopo Sannazzaro con l’Arcadia (1502), - opera di straordinaria fortuna che contò sessanta edizioni nel solo Sedicesimo secolo - che contiene scene di pastori che piangono un compagno, sgomenti, di fronte alla sua tomba. L’Arcadia di Sannazzaro ispirò centinaia di cantate e canzoni popolate da Amarilli, Dafni, Lidie, Licori, Titiro e Melibeo.

Scena di poesia fra Melibeo, Coridone e Tiri della Settima Egloga. Tratta dal Manoscritto Vaticano 3867, ispirò poeti e pittori del Rinascimento per la rappresentazione dell’Arcadia. I personaggi sono pastori e "laureati" (poeti).

Osserviamo il dipinto, la sua straordinaria armonia è frutto dell’applicazione rigorosa della sezione aurea. Ai movimenti plastici e lenti, alla luce limpida ma mesta si deve anche la sua tristezza. La decostruzione dei rapporti aurei rende possibile l’individuazione di quelle decine di figure geometriche, implicite nella tessitura del quadro, che fanno buon gioco ai cercatori di tesori. Ma le stesse figure possono essere ritrovate in tutti i dipinti costruiti secondo gli schemi pittorici del periodo.

Una delle più celebri meditazioni sulla morte della storia della pittura. Melanconica, immersa nella luce del tramonto del mondo pagano, la sibilla di Poussin cerca di consolare i pastori, ognuno dei quali ha un diverso atteggiamento. Il pastore raffigurato al centro "proietta" il segreto del quadro.

Anche in questo paradiso in terra, in questa Età dell’Oro dove regnano la bellezza, la dignità, la signorilità vi è un’ospite ingrata. Primo indizio terribile ne è la fonte disseccata il cui solco si diparte dai piedi della tomba. Poussin e Rospigliosi ci propongono una forma di meditazione sul tema più amaro fra tutti: la fine della vita terrena. In quest’epoca l’arte, che non si era ancora staccata del tutto dalla committenza religiosa, tendeva a non essere una forma di semplice "arredamento" per i ricchi ma piuttosto un aiuto alla meditazione, al recupero della serenità, alla considerazione sui lati chiari ed oscuri della vita. Non a caso venivano stampate serie di emblemata (famosi quelli di Andrea Alciato), che andavano memorizzati, visualizzati, e poi agiti nella mente affinché provocassero un cambiamento nel contemplante. La migliore pittura, almeno sino al Settecento, possedeva ancora questa qualità spirituale.

Una lettura iconologica

Sono quattro le figure presenti. Dalla lettura dei loro atteggiamenti, di ciò che indossano e da un dettaglio, in particolare, si comprende il significato complessivo del quadro. Tre figure meditano sulla scritta incisa sulla tomba e sembrano chiedere spiegazioni alla figura femminile, che ha il capo coperto. Chi rappresenta? Vi sono alcune ipotesi, tutte molto affini, che qui non ci interessa discutere. La splendida e nobile donna che domina il dipinto non è una figura celeste: lo si deduce dal colore del suo mantello che è arancione e dall’assenza di attributi propriamente divini. Non è una divinità pagana ma nemmeno una riconoscibile figura cristiana.

Frequentemente viene identificata con Iside. Ma Iside - presente nella cultura Secentesca come tema perennialista - non rientrava nei codici della poesia e della pittura pastorale-bucolica. La più celebre, anzi l’unica descrizione di Iside fatta da un vero iniziato al suo culto di epoca ellenistica, è opera di Apuleio che, nell’XI° Libro dell’Asino d’Oro, chiarisce che la dea era nota sotto diversi nomi: Magna Mater (Cibele, Rea), Minerva, Venere, Diana, Proserpina, Cerere, Giunone, Bellona, Ecate, Ramnusia; ma il suo verum nomen è Iside. Nel passo di XI, 3 si legge che la dea aveva "una massa di capelli folti e lunghi, leggermente riccioluti", che il capo le era stretto da una corona intessuta di fiori, che emetteva una "luce chiara" (la luminosità è tipica delle rappresentazioni pittoriche delle figure divine). Ai due lati della dea si alzavano due serpenti e spighe "sacre a Cerere". Ma è soprattutto la sua veste che elimina ogni dubbio. Apuleio, ci descrive una figura vestita di bisso di colore cangiante e non definito e di nero (come la terra); peraltro il bisso è quasi argenteo (come la luna) e riflette la luce d’ambiente. Iside, signora delle acque e della fertilità era associata naturalmente a colori scuri o bianco-azzurri e lunari. Non è dunque Iside la figura del quadro, anche perché nessuno degli altri personaggi reca attributi che possano avvicinarsi a personaggi del dramma di Iside1. L’identificazione non è coerente con il contesto, non è plausibile per il tipo di committenza e di quadro e, motivo decisivo, non si riscontra negli attributi del personaggio rappresentato.

Infatti si tratta di una sibilla. La donna porta il capo coperto come le sibille, rappresentate nei riquadri laterali della Cappella Sistina e in molte altre chiese. Le sibille rappresentavano la prefigurazione della saggezza cristiana, cioé la Saggezza degli Antichi nella sua espressione più nobile. Secondo la tradizione tardoantica le profetesse italiche avevano vaticinato la venuta di Cristo. Esse venivano raffigurate come giovani donne in vesti chiare, manto arancione su veste blu-azzurra (più raramente altre colorazioni), proprio come la sibilla di Poussin. Varrone specifica 10 sibille con attributi simbolici dettagliati (uno strumento musicale, un papiro ecc). In epoca medievale le sibille diverranno 12 come i profeti.

Altre volte, gli attributi strumentali erano assenti. In questo caso erano "profetesse" pagane che "senza strumenti né ornamenti", vaticinano "cose di cui non si ride" (Heracl. fr. 92DK), come la morte. Esattamente come nel quadro di Poussin, dove abbiamo una sibilla, priva di ornamento o strumenti, che allude a qualcosa di cui non si può ridere.

Due sibille d’epoca manierista di pittori molto amati da Nicolas Poussin, nato nel 1594. A sinistra la Sibilla di Domenico Zampieri, detto Domenichino (1581-1641). A destra la Sibilla di Guido Reni. (1575-1642). Identificate entrambe come la Sibilla Cumana. Le due profetesse indossano una veste arancione e portano il capo coperto come la sibilla di Poussin.

Considerando che è la Sibilla Cumana a pronunciare l’oracolo nella IV Ecloga di Virgilio, e che è sempre la Cumana a guidare Enea agli inferi nell’Eneide, la donna rappresentata da Poussin potrebbe essere proprio la Sibilla Cumana, la principale fra tutte, che divenne l’exemplum universale della saggezza vaticinante pagana. Ma priva di ornamenti. Perché la sua previsione è certa per gli uomini: è la morte. E non ha nessun bisogno di dire loro che essa arriverà, anche se sono felici pastori d’Arcadia.

A fine secolo (per esempio nelle 12 sibille della collezione Querini Stampalia di Venezia) le sibille verranno dipinte con attitudini più libere. Comunque, la Cumana di quella collezione, anche se non presenta il capo coperto è vestita degli stessi colori della sibilla di Poussin.

Il rassegnato

La postura del pastore di sinistra, un "laureato", un poeta-pastore, è melanconica, le spalle sono cadenti, lui sembra triste e rassegnato. È appoggiato o piuttosto abbandonato sulla grande tomba, quasi a volerla abbracciare. La sua comprensione si conclude lì. Il suo sguardo è abbassato, non solleva gli occhi alla figura femminile. È come se sapesse già. Inoltre, i suoi piedi sono nudi: è l’unico personaggio a non calzare sandali.

Il pastore vinto dal pensiero della morte è quasi accasciato sulla tomba senza nome (la tomba di tutti). Non possiamo aver dubbi che egli sia oppresso dalla tristezza che la consapevoleza della morte gli ha portato.

L’uomo che si fa consolare dalla Sibilla

Il giovane rappresentato sulla destra del dipinto ha un atteggiamento molto diverso. Sembra chiedere spiegazioni alla sibilla che sta al suo fianco, sembra rivolgerle domande. A differenza del compagno di sinistra, lui infatti ha ancora domande da rivolgere. Anche lui regge il bastone dei pastori (dunque è impegnato nelle faccende della vita e probabilmente in esse si è perduto sino a questo momento). Anche lui, come il primo personaggio, è imberbe. Ma calza i sandali ai piedi, e dunque possiamo supporre che andrà lontano perché cerca. La sibilla, rappresentazione della preveggenza e della saggezza pagana, cerca di consolarlo. Poggia la sua mano sulla sua spalla quasi a volerlo sorreggere. Ma non può consolarlo sino in fondo.

La sibilla che consola ma non può dare la gioia, immersa in una luce vespertina.

Il pastore-filosofo

Il pastore di centro ha l’atteggiamento più curioso. Punta il dito contro la pietra ad evidenziare la scritta Et in Arcadia ego. Non solo, la sua ombra sembra cancellare proprio la parola ego, come si osserva nelle riproduzioni di qualità del dipinto. Un terribile monito della caducità della vita. Il personaggio sta imparando ad accettare l’idea che il suo corpo presto non esisterà più. È il personaggio più singolare. Il suo atteggiamento è virile, proprio di chi affronta la realtà in faccia. Infatti, dei tre personaggi è l’unico che ha la barba. La presenza della barba è un certo indice iconologico dell’acquisizione della saggezza. Tradizionalmente, i filosofi antichi erano rappresentati con la barba, con poche eccezioni. Il pastore rappresenta comunque l’atteggiamento filosofico, nel senso etimologico, greco della parola, di amore per la saggezza (sofia), la disciplina che può donare un balsamo alle miserie della vita. Questo pastore-filosofo ha allentato la presa sulle occupazioni della vita (ha rilasciato il bastone), il suo manto blu profondo, della contemplazione distaccata, è tinto dello stesso colore della tunica della sibilla. Calza i sandali ed è l’unico a non indossare il lauro. Non è poeta - la poesia è uno dei piaceri della vita - forse è un filosofo.

L’indagatore filosofo, che non discaccia il pensiero della morte, non cerca la consolazione ma la guarda virilmente, considerandone l’aspetto più crudo: la distruzione del corpo.

Tre fasi della morte

I committenti e i fruitori di questi quadri erano colti gentiluomini, poeti, ecclesiastici, e amavano scoprire i significati che il pittore celava nel quadro. La densità iconologica dei quadri di questi periodi era straordinaria. Il segreto era connaturato al piacere di guardare un quadro. Ma questo piacere è stato purtroppo inquinato dall’attitudine moderna a vedere significati "esoterici", con la convinzione che sempre vi sia qualcosa di nascosto agli altri per motivazioni religiose, magiche o politiche. È questo un atteggiamento moderno, modernissimo. I significati nascosti, ermetici, iconologici, avevano il valore di rendere il quadro denso, di assieparne in modo armonioso multipli insegnamenti dietro la "lettera" della visione, la simplex locutio.

Durante i ricevimenti o nella quiete dell’amicizia gli invitati amavano discutere e cercare di scoprire ciò che il pittore e il suo committente (soprattutto) avevano inteso insegnare loro in tema di morale, saggezza, sapienza, storia e talvolta persino in arti ermetiche (si pensi al Parmigianino). Probabilmente nel nostro quadro vi è un secondo, raffinato gioco di significati che ha attinenza con le fasi della morte rappresentato dai tre personaggi e dai tre colori. Quando pensiamo che la fisica dell’epoca attribuiva ai tre elementi "mobili", il fuoco, l’acqua e l’aria, le tre fasi della putrefazione dei corpi gonfiati dal calore, liquefatti nell’acqua e seccati dall’aria (fasi reali, osservate e verificate ancora oggi nel disfacimento dei cadaveri) si comprende come Poussin abbia sublimato questo tema terribile con gusto e sottile allusione. I tre personaggi potrebbero dunque rappresentare le tre fasi del ritorno dei corpi alla polvere (fittamente studiate nei manuali di fisica dell’epoca) il cui esito è la terra, rappresentata dalla tomba di fronte a loro. Il personaggio di sinistra indossa una veste rossa (fuoco); il personaggio al centro indossa una veste blu (acqua), la sua attività è meno accentuata; il personaggio all’estrema sinistra indossa una veste bianca (aria). Questo è il destino di tutti, sembra dirci Rospigliosi-Poussin, e dobbiamo abituarci alla distruzione prossima del nostro corpo. Demoliti dall’azione successiva dei tre elementi dobbiamo tornare alla terra, sotto ad una pietra.

Nulla vieta di attribuire, come è stato fatto, anche dei significati alchemici di quell’alchimia spirituale assai praticata dai colti dell’epoca, nelle cerchie gesuitiche soprattutto, dove la sapienza degli antichi, la prisca philosophia veniva recuperata al messaggio cristiano. L’arte pittorica delle più colte corti del Seicento era metafisica, come le poesie di John Donne o di John Creshaw: amava sviluppare più significati, come bouquet di profumi che giungono uno dopo l’altro. E il gioco degli spettatori stava nello scoprirli e nel deliziarsi dei risultati della loro attività di ricerca. Ma niente di più lontano dalla ricerca di tesori. Era un gioco tutto intellettuale, e persino spirituale, nei casi più felici.

Il dettaglio nascosto

Tuttavia, c’è un dettaglio che rende decisiva l’identificazione del soggetto del quadro come una meditazione sulla morte, cancellazione della felicità, e sulla impossibilità del mondo pagano di vincere la tristezza dell’Ade. E questo ci riporta all’ambiente religioso romano del cardinale Rospigliosi che commissionò e pagò il quadro. Qui va ricercato il suo significato più profondo anche se successivamente la letteratura riporta tracce dell’assoggettamento del significato all’ideologia augustea francese che sostituì l’Arcadia mitica all’Età dell’Oro di Luigi XIV.

Talmente bizzarra è la capacità del dettaglio decisivo di mostrarsi alla coscienza dell’osservatore, e di nascondersi, che molto raramente esso viene individuato e trattenuto. Da questo misuriamo la genialità del pittore che è riuscito a celarlo sotto lo sguardo dell’osservatore e a rappresentare in noi, suoi spettatori, i diversi atteggiamenti dei pastori. Osserviamo l’ombra proiettata sulla pietra del sarcofago dal pastore "filosofo", calzato e distaccato dalla presa della vita, che la sta osservando da vicino. L’ombra del suo braccio destro si allunga e si curva innaturalmente sulla pietra: è l’ombra di una falce. Non può esservi dubbio. Un pittore abile come Poussin non avrebbe mai potuto rappresentare l’ombra di un braccio in quel modo e con quella curva2. L’ombra di una falce, l’ombra proiettata dal corpo è il simbolo visibile, agghiacciante della nostra mortalità che si mostra nel pieno della luce del giorno, cioè nel pieno della vita.

A partire dall’epoca umanistica, nella pittura italiana e francese la falce si trova sia nel tema del Padre Tempo, che associata a Saturno. Qui Poussin opera una geniale sintesi fra i due temi suggerendo la presenza del tema del Padre Tempo, sempre rappresentato con la falce (a sua volte variazione del tema della Morte Secca) in una scena di melanconia "saturnina"3. Il Padre Tempo, che indica la caducità della vita è qui invisibile. Poussin reinterpretava con eleganza il tema umanistico "sciogliendolo" nella rappresentazione.

Un’ombra innaturale proiettata dal braccio si deforma fino a disegnare la lama della falce della morte, effige di Saturno il divoratore, singore dell’atrabile e della melanconia.

Entrambi i temi hanno a che fare con la morte. In particolare con la caducità della vita e del corpo fisico il primo (Padre Tempo) e con gli effetti di esso il secondo (Saturno e la Melanconia)4.

L’invincibile tristezza

I Pastori d’Arcadia sono una meditazione sulla morte e sul disfacimento fisico. La sibilla annuncia una speranza, un chiarore, che però non basta a dissipare la tristezza. La tomba davanti alla quale i pastori meditano la loro sorte non porta inciso un nome perché indica il destino di tutti. L’"io", l’individualità è destinata al disfacimento nel mondo pagano. Non erano pochi i saggi pagani raffigurati nelle chiese come modelli di virtù. La poesia religiosa (a cominciare da Dante) salvava personalità pagane, come Traiano. Ma si trattava di casi eccezionali. La pedagogia del quadro può essere accostato al celebre passo di Lucrezio che assiste ad un naufragio e si compiace della propria fortuna. Il contemplante del quadro pur condividendo il destino fisico dei pastori d’Arcadia è (o può essere, se lo vuole) salvo.

Ecco perché il mondo pagano dei Pastori di Poussin è melanconico, perché, nel pensiero del pittore, (e dei suoi committenti delle cerchie curiali romane), non è ancora stato salvato dall’incarnazione di Gesù. Quest’Arcadia che prefigura la salvezza, e medita sulla morte, è colta nella luce del tramonto. Le nuvole sul fondo hanno le sfumature della sera. Dietro alle spalle della sibilla la sera sembra già giunta, i colori sono scuri, gli alberi radi, autunnali. Il pittore sembra suggerirci che quello rappresentato è un mondo che sta per finire. La tristezza della sibilla dal capo reclino, impotente, sta ad indicare anche questo: come la Cumana ha vaticinato la salvezza che verrà dal "fanciullo divino" ma (forse) non per questi uomini. I quali meditano su una pietra in confronto alla quale hanno la sostanza di un’ombra. Davanti ad una terra che non è madre, ad un sepolcro che porta la macabra effige del Padre Tempo, Crono il divoratore: la falce.

Molto probabilmente, il paesaggio non ha niente a che vedere con la zona di Rennes. La colta, sorniona attività di Maurice Leblanc, normando come Poussin, nato come lui nei pressi di Gisors, avrebbe fatto convergere una serie di indizi, - in parte ereditandoli in parte creandoli - che emuli dotati avrebbero tradotto in "prove tangibili".

Ma questa è un’altra storia.

1. Apuleio, Le metamorfosi o l’Asino d’Oro, traduz. Di C. Annaratone, Rizzoli, Milano 19813, pp. 649-651.
2. Citati P., La luce della notte, Mondadori, Milano 1996, pp. 318-320. Citati da una splendida lettura del quadro.
3. Panovsky, Studi di iconologia, Einaudi, Torino 1975, pp. 89-134. Per l’uso di Saturno nell’iconologia pittorica il testo fondamentale è Saxl F., Saturno e la melanconia, Einaudi, Torino 1983. Nella dottrina dei quatto umori Saturno presiedeva la bile, associata alla pietra.
4. Altri dipinti di Poussin contengono Saturno nell’aspetto di Padre Tempo (detto anche Grande Malefico), Ballo della vita humana e Elio, Fetonte e Saturno con le quattro stagioni (1635 ca). Nella pittura Rinascimentale e del Manierismo Saturno allude anche all’Età dell’Oro come ne Le primizie della terra offerte a Saturno di G. Vasari di Palazzo Vecchio a Firenze (1555-1557). Il riferimento all’Età dell’Oro deriva naturalmente dal mito greco, specialmente dalla Teogonia di Esiodo.

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